Amore e gelosia, intrigo e negre magie. Si potrebbe riassumere così quel polpettone musicale un poco indigesto che è La Gioconda.
Delicatissima persona, proverbialmente distratto, Ponchielli, quando la sera dell' 8 aprile 1876 colse alla Scala, il suo vero, primo successo (dirigeva il veronese Faccio), aveva quarantadue anni. Non è più un giovane, commentò caustico Verdi, nove anni più tardi lo troviamo già al cimitero.
Assieme a Boito, qui librettista anagrammato in Tobia Gorrio, inventarono un personaggio diverso, vocalmente nuovo, un soprano lirico e drammatico che fosse espressione di rabbia e tenerezza, di splendida voce innamorata e di cupa miseria umana: tutto questo si incrocia nel disegno vocale e psicologico della cantatrice veneziana.
Peccato che attorno le stanno dei personaggi con una profondità psicologica minima, essendo più simili alla rappresentazione di sentimenti estremi piuttosto che a personaggi drammatici credibili. Avviene così che figure un poco povere drammaticamente come Barnaba, o poverissimi, come Enzo, trovino una collocazione interessante in un contesto più ampio, fatto di cori, di movimenti scenici, di concertati «psicologici».
Un regista de La Gioconda oggi può scegliere due approcci antitetici per la sua messa in scena: o una parodia della storia mettendo in scena “qualcos'altro” (ci si chiede cosa potrebbero inventare Claus Guth o Krzysztof Warlikowski o anche Damiano Michieletto per fare qualche nome) oppure un'interpretazione tradizionale, un' immagine da cartolina di Venezia. A Verona Filippo Tonon non sceglie ovviamente la prima strada, ma tiene conto del budget teatrale sempre più limitato a disposizione delle Fondazioni Liriche e con una messa in scena semplificata depurata da orpelli e cartapesta, disegnando una Gioconda bellissima e molto funzionale, fatta di sapienza nel movimento delle masse in una scenografia che tende ad accennare più che a descrivere la città lagunare, trasportando l’epoca dell’azione da dogale ad austriaca (fine’800, inclusi i bellissimi costumi stile impero di Carla Galleri). Tutto bello, grazioso e funzionale, le 4 ore di spettacolo corrono con garbo in una regia di maniera che odora di naftalina. Peccato che sia tutto già visto e rivisto centinaia di volte e gli echi e i rimandi a Pizzi & company rendano lo spettacolo un po' noioso in un’ opera già di per sé noiosissima.