Con Iris, che debutta al Costanzi di Roma nel 1898, Pietro Mascagni fa un passo di lato – o forse un balzo teatrale, visionario, quasi vertiginoso – rispetto al verismo con cui era esploso, e si tuffa in un Oriente immaginario, che di giapponese non ha nulla se non l’idea, o meglio, l’idea che in Europa si aveva allora dell’idea del Giappone: lanterne, ventagli, giardini di carta di riso e ninfe immacolate pronte a essere corrotte, cioè l’invenzione di un altrove poetico e sensuale per parlare di tutt’altro.
Il libretto di Luigi Illica, delicatamente ma inesorabilmente scabroso, trasforma un racconto di innocenza violata e di desiderio sadico in una parabola sulla purezza e sulla morte, dove l’erotismo e la pietà, la carne e la luce, si fondono in un’unica vibrazione allucinata. Mascagni risponde con una musica che non illustra, ma trasfigura. L’orchestra è un personaggio vivo, sensuale, quasi indiscreto, che penetra i pensieri e i sospiri, amplifica l’inconscio e spalanca abissi sonori di inaudita modernità. La melodia si dilata, si scioglie, si piega in armonie febbrili e tremolanti, come se il compositore cercasse di catturare la stessa sostanza del sogno o del desiderio. Iris è, in fondo, un’opera di contraddizioni: orientale e mediterranea, innocente e colpevole, verista e mistica. E proprio in questa ambiguità sta il suo fascino irresistibile, quel continuo oscillare tra la purezza e la perdizione, tra il dolore e l’estasi, che anticipa la nevrosi e la sensualità del nuovo secolo. Eppure, dietro il profumo di ciliegi e di incensi, dietro la ragazza gettata nella fossa dei rifiuti e risucchiata dalla luce del sole, c’è una domanda molto più nostra, molto più italiana: quanto può essere sublime la bellezza quando nasce dal peccato, e quanta colpa può esserci nel desiderio di purezza? Mascagni, che era uomo di teatro e di istinto, non dà risposte, ma ce le canta addosso con un’orchestra che sembra sciogliersi in lacrime e velluto, in luce e veleno. Iris è la sua opera più ambigua, la più raffinata e forse la più sincera: un sogno erotico e sacro insieme, dove la bellezza si consuma – come sempre accade nel grande teatro – nel momento stesso in cui diventa assoluta. Ottima idea quella del Teatro Real di Madrid di esguirla in forma concertante, permettendoci di cogliere tutta la meraviglia di questa musica, libera da ogni mediazione scenica e dunque offerta all’ascolto puro. Senza l’apparato visivo, il pubblico è stato invitato a entrare nel cuore sonoro dell’opera, dove ogni dettaglio timbrico, ogni linea strumentale, ogni sfumatura dinamica rivelava la profondità di una scrittura tra le più raffinate e audaci del tardo Ottocento italiano. Sul podio, Daniele Callegari ha guidato l’Orchestra e il Coro del Teatro Real con gesto meticoloso e saldo, scolpendo la materia orchestrale con precisione e sensualità. La sua direzione ha restituito alla partitura la sua dimensione più intima e insieme più teatrale, illuminando tanto la trasparenza delle sezioni liriche quanto la densità sinfonica delle grandi arcate corali. La compagine corale del Teatro Real, preparata da José Luis Basso, ha risposto con straordinaria omogeneità e partecipazione vigorosa, capace di creare un’atmosfera sonora quasi palpabile. Al centro della serata, Ermonela Jaho ha incarnato un’Iris di assoluta verità emotiva: voce morbida e luminosa, capace di farsi quasi soffio nelle mezzevoci e di vibrare d’intensità nelle esplosioni liriche. La sua interpretazione, piena di pudore e dolore, ha reso il personaggio un essere fragile e sacro, figura di luce condannata alla distruzione. Accanto a lei, Gregory Kunde ha offerto un Osaka di grande eleganza vocale e finezza psicologica, lontano da ogni compiacimento, più tormentato che brutale, cantato con un fraseggio di rara nobiltà. Jongmin Park ha dato al Cieco un’impronta autorevole e cupa, Vera rivelazione è stata il Kyoto di Germán Enrique Alcántara. La voce, brunita e perfettamente controllata, ha incarnato un sadismo sottile, più psicologico che vocale, fatto di mezze tinte e improvvisi scatti di crudeltà. Alcántara ha costruito un personaggio di rara finezza interpretativa: non un semplice cattivo, ma una figura ossessiva, lucidamente perversa, che trova nella parola e nella modulazione del suono il proprio strumento di dominio. Carmen Solís e Pablo García-López hanno completato con efficacia un cast di alto livello. Questa Iris madrilena, accolta con calore e attenzione dal pubblico, ha confermato quanto quest’opera, troppo a lungo relegata ai margini del repertorio, resti una delle più affascinanti creazioni del teatro musicale italiano di fine secolo.
Pierluigi Guadagni
LA LOCANDINA
TEATRO REAL – MADRID
IRIS
Melodramma in tre atti
Musica di Pietro Mascagni
Libretto di Luigi Illica
Iris – Ermonela Jaho
Osaka – Gregory Kunde
Kyoto – Germán Enrique Alcántara
Il Cieco – Jongmin Park
Dhia / Geisha – Carmen Solís
Un mercader / Il mendigo – Pablo García-López
Direttore d’orchestra: Daniele Callegari
Maestro del coro: José Luis Basso
Orchestra e Coro Titulares del Teatro Real
Fotógrafo: © Javier del Real | Teatro Real