Riemerge dagli archivi di Casa Ricordi la versione di Simon Boccanegra, ventunesima opera scritta da Giuseppe Verdi nel 1857 per il Teatro La Fenice di Venezia, grazie al Festival Verdi di Parma che con questa operazione “storica” suggella ancora una volta il suo ruolo di custode e garante di tutta la musica verdiana, anche quella dimenticata (e forse piu’ brutta). Fiasco bruciante per il maestro delle Roncole alla prima rappresentazione, colpe dovute in parte ad una fretta compositiva incessante, ad un libretto squinternato del Piave (che fu tentato addirittura di non sottoscrivere) e ad una tinta eccessivamente monocorde della partitura musicale. La vicenda è nota: dopo averla ritirata, la riproporrà riveduta ed integrata nel 1881 al Teatro alla Scala con un libretto “aggiustato” da Arrigo Boito e con una partitura fatta di rimescolamenti armonici, aggiunte (tante), tagli (tantissimi), pensata e scritta proprio in quel Palazzo Doria a Genova, sede ideale per un suggestivo ripasso di storia locale.
Ma non è solo una questione di tagli o aggiunte. Se l’ambientazione locale rimane Genova, nella prima versione è la città misteriosa dei carrugi e degli appartamenti dogali ad emergere, nella seconda il respiro si dilata sul mare e sul mare vola anche la mirabile partitura verdiana. La cura verdiana nell’ orchestrazione si nota soprattutto nella ricerca di non distinguere tra interno ed esterno, vedendo nell’accostamento tra il personaggio e l’ambiente, un denso volume d’aria, una chimica di reazioni complesse che in un certo qual modo corrispondesse alla complessità di personaggi piu’ nuovi e compositi.
Il risultato finale è impietoso: la prima versione veneziana rimane così un canovaccio, un torso nudo, quasi una vergogna, un’opera come Lui dirà sempre in futuro, alla quale si deve voler bene «come si vuol bene al figlio gobbo.»
A Parma però abbiamo avuto la fortuna di un cast formidabile e soprattutto il miracolo di una bacchetta intelligente ed espertissima che se non ha capovolto il giudizio sul “figlio gobbo” almeno lo ha fatto risplendere in maniera corretta.
Riccardo Frizza, a capo di una precisa Orchestra Filarmonica A. Toscanini, ha capito che questa partitura non è solo un “zumpappà” dove conviene puntare il tutto sugli estremi dinamici. Frizza decide che il suono si può assottigliare nel colore più che nel volume, talora puntando a dilatare i tempi nei momenti intimi per far riemergere, ad esempio, i vaneggiamenti del Doge nell’ora della sua morte. Tempi e sonorità sono ovunque centrati, l’agogica sempre d’effetto. Frizza riesce a cavare quel quid nell’atmosfera, quella mirabile tinta notturna e avvolgente, dove il senso del dramma viene costantemente colto e veicolato efficacemente anche sul palcoscenico. Al solito preciso e partecipe il Coro del Teatro Regio di Parma istruito da Martino Faggiani.
Nel ruolo del titolo, Vladimir Stoyanov dimostra un'ineguagliabile padronanza dell'accento e del fraseggio verdiano. Nel prologo e nel primo atto sfoggia il suo bel colore brillante, ma soprattutto dei pianissimi timbratissimi e davvero perfetti. Col procedere della vicenda, all'eleganza, alla freschezza e all'omogeneità si aggiungono slancio drammatico ed espressività, rafforzati da un canto ben impostato e sempre in avanti.
Piero Pretti è un Gabriele Adorno a tutto tondo: indossa con sicurezza e slancio i panni del tenore romantico e, nel caso specifico, verdiano, di cui possiede i giusti accenti e il senso del fraseggio. La dizione è chiarissima, così come l’articolazione delle parole, che suonano sempre ampie e generose. La sua “Pietoso cielo, rendila” nel secondo atto, viene cesellata con una cura ed una padronanza di stile incredibili, la sua esecuzione è un vero tripudio di colori, arricchita di cromatismi e mezze voci, che imprimono una musicalità e un'omogeneità su tutta la linea di canto davvero eccellenti.
La splendida vocalità di Roberta Mantegna ha raggiunto ormai possibilità pressoché illimitate: voce piena, omogenea e ben timbrata, fiati interminabili, sovracuti svettanti con grande potenza ma anche ‘pianissimi’ limpidi, puri e delicati. La perfida cabaletta al primo atto “Il palpito deh frena” (miracolosamente poi tagliata da Verdi nella versione milanese) è risolta con rara facilità dimostrando una notevole tecnica soprattutto in sovracuto.
Il Fiesco di Riccardo Zanellato non delude alcuna aspettativa e può sinceramente essere considerato il basso verdiano per eccellenza nel timbro, nel colore, nel cantabile, nell'uso della parola, nell'autorevolezza dell'interpretazione. A tanta magnificenza è da aggiungersi una certa abilità nel legato e nell'uso dei pianissimi; il duetto con il Doge “Piango perchè mi parla in te la voce” nel terzo atto è ricco di sentimento e toccante fino alle lacrime.
Adriano Gramigni e Chiara Guerra sono efficaci nei rispettivi ruoli di Pietro e un’ancella di Amelia ed è un vero piacere udire la voce piena e corposa di David Cecconi nei panni di Paolo Albiani.
Della regia di Valentina Carrasco diremo che non aggiunge nulla di nuovo a produzioni che si vedevano nella provincia tedesca negli anni ‘90 del secolo scorso. Accolta da una grandinata di fischi alla prima recita, la Carrasco ambienta la vicenda in un porto di una grande città negli anni 60 del 1900, per la precisione nella parte refrigerata del macello, dove nel terzo atto, Simone e Fiesco, consumano il loro duetto tra mezzene di bue in un surreale slalom, per poi concludere l’opera in una catarsi bucolica dove un reale agnello sacrificale viene fatto accarezzare in scena dal nuovo Doge Gabriele Adorno. La Carrasco è abilissima ad inventare e gestire i movimenti delle masse ma non aggiunge nulla di nuovo ad una narrazione vista già molte volte, con l’aggravante di non avere almeno osato di piu’ in quelle situazioni piu’ intriganti che l’avrebbero almeno aiutata ad uscire da clichè ripetitivi.
Solite palandrane e vestitini anonimi (Amelia calza delle meravigliose Crocs a fiori nel primo atto) sono la cifra stilistica dei costumi di Mauro Tinti. Una cella frigorifera è il Palazzo dei Fieschi (dove si presume che Jacopo conservi il corpo della figlia morta Maria) che si trasforma poi nella casetta di Amelia e le già citate mezzene di bue sono le scene di Martina Segna.
Al termine applausi convinti per tutti i responsabili della parte musicale, da parte di un teatro comunque non particolarmente caloroso.
Pierluigi Guadagni
PRODUZIONE ED INTERPRETI
SIMON BOCCANEGRA
Melodramma in un prologo e tre atti di Francesco Maria Piave
dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García-Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi - versione per Venezia 1857
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Valentina Carrasco
Scene Martina Segna
Costumi Mauro Tinti
Luci Ludovico Gobbi
Prologo
Simon Boccanegra corsaro al servizio
della repubblica genovese Vladimir Stoyanov
Jacopo Fiesco nobile genovese Riccardo Zanellato
Paolo Albiani filatore d’oro, genovese Devid Cecconi
Pietro popolano di Genova Adriano Gramigni
Dramma
Simon Boccanegra, primo doge di Genova Vladimir Stoyanov
Maria Boccanegra, sua figlia, sotto il nome di
Amelia Grimaldi Roberta Mantegna
Jacopo Fiesco, sotto il nome di Andrea Riccardo Zanellato
Gabriele Adorno, gentiluomo genovese Piero Pretti
Paolo Albiani, cortigiano favorito del doge Devid Cecconi
Pietro, altro cortigiano Adriano Gramigni
Un’ancella di Amelia Chiara Guerra
Filarmonica Arturo Toscanini
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma - Foto Teatro Regio Parma
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