D. SHOSTAKOVICH - LEDI MAKBET MCENSKOGO UEZDA (Una lady Macbeth del distretto di Mcensk) - TEATRO ALLA SCALA - 16 DICEMBRE 2025

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C’è qualcosa di profondamente doppio, quasi schizofrenico, nel capolavoro di Dmitrij Šostakovič. E la nuova Lady Macbeth del distretto di Mcensk alla Scala ha avuto l’intelligenza di non scegliere: di tenere insieme le due anime, farle cozzare, vibrare, respirare una dentro l’altra, fino a generare quella sensazione febbrile di arte viva che raramente si concede al teatro musicale. Titolo non di repertorio, cantato in russo, con un universo di violenze, sarcasmo e sesso esibito senza grazia consolatoria: eppure Milano applaude, con quella gratitudine silenziosa che si riserva alle serate dove si sente odore di storia teatrale.

Riccardo Chailly firma una direzione che, più che dominare la materia incandescente della partitura, sembra volerla comprendere dall’interno, quasi a restituire dignità alla sofferenza che la genera. Niente brutalismi facili, niente compiacimenti nel clangore: il suono della Scala è sì sontuoso e implacabile, ma attraversato da un lirismo febbricitante, dolente, intimo, capace di rendere Katerina “un raggio di luce nelle tenebre” non come slogan da programma di sala, bensì come verità teatrale. Gli interludi emergono lucidissimi, cesellati come gioielli inquieti; la materia timbrica vibra tra zone livide e lampi di luce smaltata; la tensione non si allenta mai, si concentra, si comprime, esplode, senza mai degenerare nel rumore. Tutto è calibrato, persino nei momenti più brutali: quell’oscuro finale, con gli archi bassi a scavare come strumenti di una tortura interiore, ha una dignità tragica che raramente si è ascoltata in questa partitura. Se Chailly scava nella pietà, Vasily Barkhatov fa esattamente il contrario: getta luce cruda sul mostruoso, sul grottesco irrimediabile, sulla società che divora e ride, che punisce e si decompone, che finge ordine e produce caos. La trovata dell’indagine di polizia come cornice – con mimi, proiezioni, passaggi di scena che sembrano dossier aperti su un crimine collettivo – non è un vezzo registico: è la dichiarazione di metodo. Non si tratta di raccontare una storia di delitto e passione, ma di mettere sotto inchiesta un mondo intero, le sue ipocrisie, le sue maschere, i suoi riti mostruosamente vuoti. La sontuosa scenografia anni Trenta di Zinovy Margolin traduce questa diagnosi in immagini: la bellezza decò come patina che ricopre l’orrore domestico, il ristorante scintillante che nasconde cucine fredde, corridoi lividi, spazi che promettono prosperità e consegnano claustrofobia. Ci si potrebbe dire che la meccanica dell’alternanza scenica alla lunga rischi una certa prevedibilità; ma poi arriva quel camion del quarto atto che squarcia non solo la scena ma anche la sensazione, con i deportati, e la Scala entra in un’altra atmosfera: quella della Russia della punizione eterna, della marcia nel gelo senza redenzione. E il finale, infedele al libretto, abbandona il lago e sceglie il fuoco. Non dissoluzione liquida, ma combustione: Katerina non scivola, brucia. Brucia la carne, brucia l’illusione, brucia l’idea stessa di amore come possibile salvezza. E con lei brucia un mondo. Si può discutere a lungo sulla legittimità dell’interpretazione, ma teatralmente è di una forza scomoda, quasi necessaria. Barkhatov non illustra la crudeltà: la seziona. Il funerale di Boris è una parodia agghiacciante, teatro nel teatro che smaschera la liturgia del dolore; il pope è un relitto di religione fallita, caricatura oscena di una spiritualità scaduta; i poliziotti vestiti di bianco diventano parata ridicola e opprimente insieme, autorità che si autocelebra e si autoannienta. Il pope nella scena del matrimonio che diventa il capo pasticcere pronto a regalare una torta giagantesca e fuori misura è geniale. Non è uno scherzo, è il ridere cupo di Šostakovič, quella risata corrosiva che lascia sul palcoscenico un senso di vuoto più devastante della tragedia pura. Ed è proprio qui che la musica dispiega tutta la sua stratificazione, la sua lucidissima polifonia stilistica: il folklore reinventato, mai illustrativo; i cori oscillanti tra sarcasmo popolare, gioia deformata e ubriachezza rituale; gli interludi che non connettono semplicemente le scene, ma le pensano, le commentano, le giudicano. Chailly li scolpisce come saggi sinfonici sulla psiche, dal primo cupissimo al quinto indiavolato, con una chiarezza strutturale che soddisfa anche l’orecchio più esigente: nulla è nebulizzato, nulla è impressionistico, è materia pensata, lucidata, esposta. Sul piano vocale e teatrale, lo spettacolo è abitato con intelligenza. Sara Jakubiak costruisce una Katerina complessa, mai ridotta a eroe negativo o a pura vittima: voce solida, acuti affrontati con coraggio, fraseggio forse non sempre incandescente ma costantemente pertinente, e soprattutto un corpo scenico capace di abitare la noia, la fame d’amore, la lucidità disperata del disincanto. Najmiddin Mavlyanov tratteggia un Sergej nervoso, ruvido, seduttore pericoloso proprio perché mediocre; Alexander Roslavets dona a Boris una materia vocale piena, meno trucida del previsto e per questo più ambigua, più umana e più laida; Ivan Akinin rende perfettamente quel Zinovij patetico e urticante che la partitura disegna; Ekaterina Sannikova offre un’Aksinja dolente, ferita, viva; Elena Maximova scolpisce una Sonetka di velenosa precisione. Merita una menzione particolare Alexander Kravets, che nel ruolo del vecchio cencioso offre una prova di straordinaria intelligenza teatrale: nella difficilissima scena del ritrovamento del cadavere di Zinovij riesce a trasformare un momento che potrebbe facilmente scivolare nel puro meccanismo narrativo in un vertice di tensione drammatica. Il coro di Alberto Malazzi è strepitoso per compattezza sonora, intelligenza drammatica, dizione perforante: il finale dei forzati è un buco nero sonoro che inghiotte tutto. Ne esce una Russia senza consolazione, arcaica e moderna, borghese e barbarica, mistica e volgare, dove la ribellione di Katerina è al tempo stesso colpa, gesto disperato di sopravvivenza e condanna senza appello. Alla Scala, questa doppia anima, lirica e sarcastica, pietosa e caustica, è esplosa con chiarezza esemplare. E non è poco. È il teatro che fa il teatro: quello che scuote, divide, accende e soprattutto rimane. Applausi convinti per tutti al termine con autentiche ovazioni per il maestro Chailly.

Pierluigi Guadagni

 

LA LOCANDINA

 

UNA LADY MACBETH DEL DISTRETTO DI MCENSK


Opera in quattro atti e nove quadri
Musica di Dmitrij Šostakovič
Libretto proprio e di Alexander Prejs 
dal racconto omonimo di Nikolaij Leskov

Boris Timofeevič Izmailov Alexander Roslavets
Zinovij Borisovič Izmailov Yevgeny Akimov
Katerina L’vovna Izmajlova Sara Jakubiak
Sergej Najmiddin Mavlyanov
Un contadino cencioso Alexander Kravets
Un operaio del mulino Chao Liu
Un prete Valery Gilmanov
Un guardiano Jirí Rajniš
Un caporeparto Ivan Shcherbatykh*
Un sergente di polizia Oleg Budaratskiy
Un ospite ubriaco Massimiliano Difino*
Aksin’ja Ekaterina Sannikova
Un vecchio forzato Goderdzi Janelidze
Sonetka Elena Maximova
Una forzata Laura Lolita Perešivana
Un sergente Xhieldo Hyseni**
Un poliziotto Huanhong Li
Una guardia Chao Liu
Fantasma di Boris Timofeevič Coro
Un insegnante Vasyl Solodkyy
Un cocchiere Haiyang Guo
Primo lavorante Antonio Murgo*
Secondo lavorante Joon Ho Pak*
Terzo lavorante Flavio D’ambra*
*Artista del Coro del Teatro alla Scala
**Allievo dell’Accademia Teatro alla Scala

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Alberto Malazzi

Regia Vasily Barkhatov
Scene Zinovy Margolon
Costumi Olga Shaishmelashvili
Luci Alexander Sivaev

 

foto: Brescia e Amisano