Con il concerto di sabato 8 giugno e la proclamazione dei vincitori si è conclusa l’avventura del concorso dedicato a Tullio Serafin che in suo onore si è svolto proprio a Cavarzere, comune nella cui frazione, Rottanova, era nato il Maestro, e naturalmente nel teatro che porta il suo nome. Già il teatrino è di per sé un piccolo gioiello, da poco restaurato ed in cui si possono ammirare stampe ritraenti il grande Direttore d’orchestra e persino il pianoforte a lui appartenuto, dono del duca Visconti di Modrone ‘con riconoscenza ed affezione’, come reca la targa affissa in cima. Se poi si considera quanto il Maestro tenesse ai giovani cantanti ed allo sviluppo delle voci, il cocktail per un appuntamento di tutto rispetto è servito.
Con un emozionante concerto che ha visto l' Orchestra di Padova e del Veneto e il violino solista di Sonig Tchakerian, si sono aperte le Settimane Musicali del Teatro Olimpico di Vicenza, giunti quest'anno alla 28° edizione.
Un programma che a prima vista potrebbe sembrare scontato, ha avuto invece una partecipazione emotiva non indifferente, grazie oltre che alla bravura degli interpreti, anche e soprattutto all'accostamento dei compositori Vivaldi\Piazzolla legato al tema delle stagioni.
Fino all'inizio del '900, Vivaldi era l'autore dei concerti delle “Stagioni” e niente di più, essi erano sopravvissuti per la loro particolare natura descrittiva , una natura che è totalmente diversa da quella di altre musiche descrittive di quel periodo.
Per Vivaldi però l'aspetto didascalico non è qualcosa di posticcio, costituisce invece uno degli aspetti più caratteristici della sua personalità, indica il suo bisogno di immaginare ed esprimersi con assoluta libertà e naturalezza. Sappiamo che i sonetti accompagnatori dei 4 concerti sono stati aggiunti in un secondo tempo al momento di andare in stampa e probabilmente in principio l'intento descrittivo era molto minore, forse affidato soprattutto all'estro improvvisativo del violino solista piuttosto che alla precisione delle note scritte.
II tempo delle favole deve rappresentare una indicazione piuttosto fumosa per il regista Fabio Cherstich, che ha pensato quanto il passato fosse ormai troppo inflazionato per ambientarvi le vicende di una ‘mozza teste’ senza cuore il cui popolo vive costantemente nel terrore circondato da violenza e maltrattamenti. Dunque visto come sta andando il mondo, nel 2070 Pechino diventa una metropoli coloratissima, con grattaceli dalle forme strampalate, draghi/astronavi e mezzi volanti vari che affollano i suoi cieli e mostri multiformi o multi teste che svolazzano allegramente qua e là. Tutto ciò che accade sul palcoscenico è costantemente accompagnato da un sottofondo proiettato su schermi enormi che, alternando immagini di questa città immaginaria, ci spiegano il lento processo di uccisione di coloro che non hanno saputo sciogliere i tre enigmi. Così, invece di concentrarsi sugli eccellenti protagonisti, si rischia di spostare l’attenzione verso le immagini proiettate che, tra l’altro, sono ripetitive e spesso fastidiose a nostro avviso. I poveretti sono seminudi e seviziati da un mostro che prima li avviluppa nei suoi tentacoli, poi li sistema su di un tapis roulant che termina il suo percorso in un grosso cilindro nel quale avviene il taglio delle teste, infine queste vengono utilizzate come ornamento su dei fiori gommacei che volteggiano nell’aria. Senza parole.
Per l’ultimo appuntamento primaverile di stagione la Fondazione Arena propone un dittico tanto insolito quanto esuberante, i cui due componenti, pur appartenendo a due epoche decisamente diverse per gusto, stile e contenuti, sono accumunati dall’elemento principe che colpisce il pubblico: far divertire. Per il Maestro di Cappella importante è la capacità del regista nel consigliare e guidare l’unico interprete affinché si muova, canti e reciti in modo coinvolgente, non ridondante ed interagendo perfettamente con i musicisti, in un certo senso antagonisti del Maestro.
Al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste siamo arrivati al penultimo titolo in cartellone per questa stagione: Andrea Chénier di Umberto Giordano.
La spending review imposta ai teatri ha fatto molti danni, si sa. Tuttavia ha obbligato i teatri ad aumentare le coproduzioni e ha reso possibile la messa in scena di titoli che spesso non fanno proprio parte del repertorio. Il pubblico triestino in questo caso deve ringraziare la coproduzione con il Teatro Opera SNG di Maribor, che si avvale delle scene gradevoli ed essenziali di William Orlandi, per la possibilità di vedere riproposta l’opera più celebre del compositore foggiano. L'impianto si basa su due pareti con colonne in stile corinzio che ruotando ricreano e circoscrivono gli ambienti dei vari quadri, mentre ai lati la scena è dominata dagli scaffali pieni di libri di qualche immensa biblioteca.
Delude la regista Sarah Schinasi che non riesce a raccontare nulla di nuovo o di particolarmente significativo in questa sua visione di Andrea Chénier, in cui manca il dettaglio e l’approfondimento sui singoli. Sono parse poco riuscite specialmente le scene iniziali - probabilmente anche a causa delle (sparute) masse - che lasciano alquanto confuso lo spettatore.Evitabili le proiezioni durante la scena in cui si racconta del primo incontro fra Maddalena e Gérard. Ben realizzati ma semplici i costumi di Jesus Ruiz.
Non si capisce bene dove Kristian Benedikt metta la voce, che risulta piuttosto adenoidale e sorda, ma in qualche modo capace di sfogare in acuto. Il suo Andrea Chénier è appassionato sulla scena, ma le mancanze sul piano vocale non gli permettono una realizzazione a tutto tondo del poeta francese.
Svetla Vassileva risolve con mestiere la parte di Maddalena: sa stare benissimo in scena e il suo personaggio è ben pensato e sviluppato, sebbene la caratterizzazione risulti leggermente esasperata. Al netto di un registro acuto piuttosto oscillante, la voce è lucente e di quelle che aumentano notevolmente di ampiezza man mano che si sale sul pentagramma. Il fraseggio è attento, vario e mai banale. L’artista ha potuto giocare al meglio le sue carte nella sua grande aria – davvero stupenda l'introduzione del violoncello - e nel duetto finale.
Il canto di Devid Cecconi appare un po’ ruvido e ben si presta alla visione di un Gérard 'villain', ma che il baritono sa rendere anche uomo d’onore capace di grande umanità. Meritati i lunghi applausi a scena aperta tributatigli dal pubblico dopo la sua interpretazione di 'Nemico della patria'.
Davvero ottimo tutto il versante maschile dei comprimari con Francesco Musinu (Roucher), Saverio Pugliese (un Incredibile/l'Abate poeta), Gianni Giuga (Pietro Fléville/Il sanculotto Mathieu), Giuliano Pelizon (Schmidt/Il maestro di casa), Giovanni Palumbo (Fouquier Tinville) e Francesco Paccorini (Dumas). Risultano meno brillanti le parti femminili, seppur nel complesso tutte sufficienti. Premurosa la vecchia Madelon di Isabel De Paoli, sarebbe piaciuto un po’ più di smalto alla Bersi di Albane Carrère e adeguata Anna Evtekhova come Contessa di Coigny.
Fabrizio Maria Carminati è una garanzia in qualunque repertorio e sotto la sua guida l’orchestra triestina non delude mai - benissimo tutte le sezioni - e suona sempre al meglio. Il direttore ha il grande pregio di saper valorizzare le caratteristiche intrinseche di ogni partitura e non lasciarsi tentare dai vecchi e superati sentieri interpretativi. Il palco è sotto controllo e i volumi calibrati in base alle necessità delle singole compagnie. Ama questo filone e si sente.
Positiva ci è parsa la prova del coro preparato da Francesca Tosi.
Buon successo per tutti, con punte di entusiasmo per Cecconi e Carminati.
Andrea Bomben
LA PRODUZIONE
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Regia Sarah Schinasi
Scene William Orlandi
Costumi Jesus Ruiz
Maestro del coro Francesca Tosi
GLI INTERPRETI
Andrea Chénier Kristian Benedikt
Maddalena di Coigny Svetla Vassileva
Carlo Gérard Devid Cecconi
Madelon Isabel De Paoli
La Contessa di Coigny Anna Evtekhova
Bersi Albane Carrère
Roucher Francesco Musinu
Un Incredibile/
L'Abate poeta Saverio Pugliese
Pietro Fléville/
Il sanculotto Mathieu Gianni Giuga
Schmidt/
Il maestro di casa Giuliano Pelizon
Fouquier Tinville Giovanni Palumbo
Dumas Francesco Paccorini
Orchestra del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
(Foto Teatro Verdi - Trieste)
Sembra incredibile ma trent’anni ci son voluti affinché una delle opere di Verdi più amate e rappresentate al mondo tornasse sul palcoscenico della Fenice di Venezia. Riproposto negli anni Ottanta del secolo scorso, questo fortunato allestimento di Aida viene dal passato, precisamente dal lontanissimo 1978 quando Mauro Bolognini ideò uno spettacolo imponente che potesse sottolineare la grandezza dell’antico Egitto e del teatro veneziano che ospitava la produzione. Oggi Bepi Morassi rivisita e riporta in scena quanto a suo tempo aveva pensato il regista, per rappresentare il viaggio sentimentale dei protagonisti tra conflitti politici ed amorosi. Con una scena incastonata perfettamente nel palco come una scatola magica, i due livelli progettati da Mario Ceroli sono funzionali senza strafare, riempiono tutto lo spazio a disposizione occupando con gli interpreti anche tutto il proscenio, probabilmente per lasciare che le voci non restino ‘imprigionate’ tra le opulenti pareti. Non c’è tantissimo spazio per l’azione che quindi è piuttosto lineare senza colpi di scena, ma segue il libretto con rispetto ed una certa eleganza, ormai rara per taluni registi di oggi. I costumi storici di Aldo Buti messi a disposizione dall’Archivio Cerratelli di Pisa sono perfettamente in linea con il periodo e le luci di Fabio Barettin costituiscono uno degli elementi fondamentali dello spettacolo, sottolineando ogni più piccolo dettaglio della narrazione e perfino le espressioni dei protagonisti.
Le favole fanno bene al nostro spirito perché ci permettono di sognare e di vivere per un istante in una dimensione parallela in cui tutto può accadere. Turandot ha maturato un odio verso gli uomini che difficilmente nella vita reale svanirebbe nonostante il valente corteggiatore. Ma ‘al tempo delle favole’ anche la più spietata e senza cuore principessa cede e Cecilia Ligorio concepisce la vicenda come lo schiudersi di uno scrigno che lascia pian piano lo spazio alla luce dei sentimenti più puri, così come il palco si apre alla luminosità ed alla gioia.
La Dorilla (questo è il nome presente sul manoscritto autografo) di Antonio Vivaldi è un intrigo romantico-pastorale e uno dei maggiori successi riscossi dall’autore durante la sua carriera. L’opera vide la luce per la prima volta il 9 novembre 1726 nel Teatro Sant’Angelo di Venezia, di cui l’abate era impresario assieme al padre.
All’epoca era prassi comune inaugurare la stagione con un cosiddetto pastiche, una sorta di collage di arie preesistenti di altri autori e brani propri. Il tutto però non era lasciato al caso, ma esisteva un modus operandi ben preciso: il compositore del pasticcio doveva pensare a scrivere (o riciclare da altre sue composizioni) la sinfonia, tutti i recitativi e i cori. In seguito doveva selezionare le arie di altri compositori che era intenzionato ad adoperare: solo a questo punto avrebbe integrato il tutto con arie scritte di proprio pugno. Nella prima versione dell’opera erano presenti, oltre ad arie di autori anonimi, arie di Sarro, Hasse e Giacomelli a dimostrare la crescente influenza nel mondo musicale della scuola napoletana.
Questa influenza si fa ben più evidente nella quarta versione dell’opera (1734), l’unica a noi giunta e riproposta dalla Fondazione Teatro La Fenice al Malibran, in cui infatti sono ben 7 le nuove arie presenti, composte da Vinci Sarro, Leo, Hasse e Giacomelli.
Probabilmente i brani scelti erano delle vere e proprie hit al tempo e, sicuramente pensando al gusto del pubblico e alle necessità di botteghino del suo teatro, la scelta di Vivaldi non fu casuale. Altrettanto famose erano le sue 4 Stagioni e approfittando della consolidata pratica barocca dell’autoimprestito, infila una citazione del tema della 'Primavera' alla fine del terzo movimento della sinfonia e all’inizio della prima scena.
Da qui sembra partire il regista Fabio Ceresa che coglie la palla al balzo e si serve del cambio delle stagioni come metafora del percorso di crescita e maturazione della protagonista e - diciamolo pure - ravvivare una trama, che risulta debole, in particolare nel secondo e terzo atto. Fa quel che si può insomma: i personaggi non hanno un approfondimento psicologico, ma è più che altro una colpa da attribuire al librettista Antonio Maria Lucchini.
Particolarmente bella e riuscita è anche la trovata registica di raffigurare i miti di Dafne, Clizia e Giacinto (amori sfortunati di Nomio-Apollo) e di sciogliere un po’ la tensione dando una caratterizzazione da basso buffo al personaggio di Admeto. Le scene di Massimo Cecchetto si basano su un impianto neoclassico con ampie scalinate, statue e una porta centrale attorno alle quali si sviluppa tutta l’azione, ravvivata dai ballerini della Fattoria Vittadini. Funzionali i luccicanti costumi classical-kitsch di Giuseppe Palella.
Dopo l’Orlando dell’anno scorso, continua così il progetto della sovraintendenza di creare una sezione storicamente informata dell’orchestra stabile con strumenti d’epoca che si possa specializzare nel repertorio barocco, grazie anche agli innesti provenienti da I Barocchisti di Diego Fasolis.
Il direttore svizzero, forte della sua recente incisione dell’opera, conosce bene la partitura e ci gioca a suo piacimento esasperando i contrasti e le dinamiche – si concede anche qualche momento effettistico – pur sempre evitando gli eccessi e optando per una direzione snella e asciutta.
Puntare su un cast quasi interamente composto da giovanissimi è lodevole, ma qui l’età e sopratutto l’esperienza hanno fatto la differenza. Le più convincenti risultano infatti le due veterane del cast Lucia Cirillo, un Elmiro appassionato e molto in linea con lo stile barocco, e Manuela Custer, una Dorilla dalla voce più tornita, ma meno a fuoco nel secondo e terzo atto.
Valeria Girardello fatica a emergere vocalmente, nonostante la sontuosità in scena (che bello però sentire ogni tanto un contralto vero), Rosa Bove è energica e frizzante con la sua vocalità e agilità 'à la Bartoli'. L’Apollo di Véronique Valdès non è divino, soprattutto per quanto riguarda la poca personalità e Michele Patti ha voce possente ma da rifinire.
Una garanzia il Coro preparato da Marino Moretti.
Trionfo da parte del pubblico che affollava il Teatro Malibran.
Andrea Bomben
LA PRODUZIONE
Concertatore e direttore |
Diego Fasolis |
Regia |
Fabio Ceresa |
Scene |
Massimo Checchetto |
Costumi |
Giuseppe Palella |
Light designer |
Fabio Barettin |
Assistente alla regia e coreografo |
Mattia Agatiello |
Maestro del coro |
Claudio Marino Moretti |
GLI INTERPRETI
Dorilla |
Manuela Custer |
Elmiro |
Lucia Cirillo |
Nomio (Apollo) |
Véronique Valdès |
Filindo |
Rosa Bove |
Eudamia |
Valeria Girardello |
Admeto |
Michele Patti |
Pastori, ninfe |
Nicoletta Andeliero |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice |
|
Continuo |
|
Cembalo |
Diego Fasolis, |
Ballerini:Fattoria Vittadini |
|
Maura Di Vietri,Samuel Moretti, |
FOTO MICHELE CROSERA
Il titolo di questo spettacolo offerto dal Ponchielli di Cremona fa già presagire che l’Orfeo proposto per il Festival Monteverdi di quest’anno si discosta notevolmente dall’immagine fatata ed eterea che nel nostro immaginario associamo da sempre alla favola dello sfortunato amante e poeta. Il protagonista è molto vicino a noi e lo sono tutti coloro che ruotano attorno al suo viaggio nella vita e nell’aldilà. È proprio dall’idea del viaggio che il regista Luigi De Angelis è partito per ambientare la vicenda fantastica in una attualissima metropolitana, che entra ed esce dai suoi tunnel così come la vita di Orfeo sembra entrare nel tunnel della morte, uscirne carico di speranza nel riavere la sua amata, e ripiombare nell’oscurità perdendola di nuovo. Ma è anche un viaggio verso la ricerca di sé, verso una propria identità, così come è la vita per tanti giovani di oggi forse un po’ smarriti dalle incertezze della quotidianità. Il moderno Orfeo trova conforto tra le braccia di Apollo, ma qui non significa ascendere necessariamente al cielo, può essere un amico, un saggio consigliere, una persona cui appoggiarsi e con cui crescere. Ecco dunque che tutto viene spostato anche fisicamente in uno spazio decisamente concreto in cui anche il pubblico è chiamato a partecipare.
Monteverdi Festival 2019
I Contrasti Creativi sono il filo conduttore del Monteverdi Festival 2019 e l’inaugurazione del Festival di quest’anno, il 2 maggio (ore 21.00 e in replica il 3, 4 maggio), sarà all’insegna di una produzione “Young Barocco” tutta particolare. Un’ opera lirica sui generis, di nuova produzione, un vagone di una immaginaria metropolitana in cui prende vita l’Orfeo nel Metrò con le superbe musiche di Claudio Monteverdi.
La regia è affidata a Luigi De Angelis, mentre la direzione a Hérnan Schvartzman, che guiderà i giovani cantanti e musicisti della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado.
I biglietti sono in vendita alla biglietteria del Teatro, aperta tutti i giorni feriali dalle 10.30 alle 13.30 e dalle 16.30 alle 19.30 (tel 0372.022001/02) – Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. –www.teatroponchielli.it
Biglietti posto unico numerato € 30,00
giovedì 2 maggio, ore 21.00 (in abbonamento) – palcoscenico del Teatro Ponchielli
venerdì 3maggio, ore 21.00 – palcoscenico del Teatro Ponchielli
sabato 4 maggio, ore 15.00 e 21.00 – palcoscenico del Teatro Ponchielli
Orfeo nel metrò
Favola in musica in cinque atti
Libretto di Alessandro Striggio
Musica di Claudio Monteverdi
Ed. Clifford Bartlett
Ideazione e rivisitazione drammaturgica a cura di Luigi De Angelis e Hernán Schvartzman
Personaggi ed interpreti
Orfeo Antonio Sapio
Euridice, Eco, Speranza Veronica Villa
Musica, Proserpina, Messaggera Arianna Stornello
Plutone, Caronte Lorenzo Tosi
Pastore II, Apollo Michele Gaddi
Pastore I. Danilo Pastore
Pastore III Stefano Maffioletti
Pastore IV Marco Tomasoni
Ninfa Martha Rook
Spiriti infernali Danilo Pastore, Michele Gaddi, Stefano Maffioletti, Marco Tomasoni, Piero Facci
direttore e clavicembalo
Hernán Schvartzman
regia, scene e luci
Luigi De Angelis
Costumi
Chiara Lagani
Nuovo allestimento
Young Barocco – Stagione d’Opera 2019
Orchestra Barocca della Civica Scuola di Musica “Claudio Abbado”, Fondazione Milano
DECORAZIONE DELLE SCENE a cura degli studenti
dell’Istituto di Istruzione Superiore “Antonio Stradivari”
Produzione Teatro A. Ponchielli di Cremona
in collaborazione con
Civica Scuola di Musica “Claudio Abbado”, Fondazione Milano
La collaborazione con la Civica Scuola di Musica Claudio Abbado di Milano e la realizzazione di un bando rivolto a studenti ed ex studenti di Canto Rinascimentale e Barocco dei conservatori italiani per la selezione di cantanti nell'ambito del progetto L'Orfeo di Claudio Monteverdi.
Il bando ha visto una partecipazione massiccia di giovani artisti, più di 80 provenienti dall’ Italia e dall’estero, tra cui sono stati selezionati 10 giovani, che faranno parte del cast dell'opera L'Orfeo di Claudio Monteverdi, con la regia di Luigi De Angelis e direzione di Hernán Schvartzman, che inaugurerà a maggio il Monteverdi Festival 2019. Anche l’ensemble che accompagnerà i cantanti è costituito da studenti ed ex-studenti della Civica Scuola di Musica. Ed Orfeo nel metrò è uno spettacolo contemporaneo con un altissimo valore formativo: il regista Luigi De Angelis costruisce i suoi spettacoli sugli artisti con cui lavora, plasmando i personaggi dell’opera sui singoli cantanti. Il lavoro drammaturgico e scenico è particolarmente approfondito, vista la prossimità tra artisti e pubblico all’interno di un ideale “vagone” di metrò. Non c’è distinzione tra palcoscenico e platea, ma tutti agiscono nello stesso spazio teatrale.
Badate, ella ci crede. Così si può riassumere la Madama Butterfly andata in scena al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste secondo la visione di Alberto Triola. Al centro di tutto viene posto il sogno d’amore della giapponesina (vissuto anche come riscatto sociale): un sogno di cui lo zio Bonzo non può far parte, e non a caso egli fa la sua comparsa fuori scena. Secondo il regista, Butterfly è una ragazzina che cresce in fretta e non si arrende mai. Il suo spirito vacilla un attimo solo durante il duetto con Sharpless, ma dentro di lei c’è sempre un’invincibile primavera, che continua a ricreare in modo compulsivo realizzando fiori di loto con gli origami, anche quando l’autunno è inesorabilmente già arrivato. Con quei fiori decora il giardino quando scopre che il suo amato tornerà, dei fiori uguali a quello che aveva donato a lui il giorno del loro matrimonio. Il meticoloso lavoro eseguito sui singoli cantanti è evidente e dimostra che una regia riuscita si basa sulle piccole cose, anche un semplice gioco di sguardi.
Forse c’è una legge fisica o è soltanto frutto di un straordinaria congiunzione astrale, il fatto che molto spesso i grandi capolavori dell’arte in ogni sua sezione, siano frutto di menti tanto precoci quanto fugace è la loro permanenza in questo mondo. Tale fu per lo Stabat Mater composto dall’allora giovanissimo Giovanni Battista Pergolesi, che dalla splendida Jesi approdò al Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo, nella fulgida Napoli brulicante di eccellenze e nel pieno del suo splendore culturale. Ormai alla fine di una vita segnata da numerosi problemi di salute, concepì appena in tempo uno dei capolavori indiscussi della musica sacra, il suo Stabat Mater appunto, che ieri ha riempito le arcate del santuario di Lonigo grazie alle voci di Giulia Bolcato, Maria Elena Pepi ed all’Ensemble Barocco Vicenza in Lirica diretto ed accompagnato al cembalo da Alberto Maron.
Approda anche a Verona sulle tavole del Teatro Filarmonico, il fortunato allestimento di Adriana Lecouvreur pensato nel 2014 da Ivan Stefanutti per il Teatro Sociale di Como.
Il capolavoro del pur breve catalogo di Cilea, nonostante lo sgangherato e complesso libretto di Colautti, riesce ancora oggi a suscitare interesse nel pubblico, principalmente per la particolare abilità del compositore calabrese nel circoscrivere musicalmente lo spirito di un personaggio. E in questo caso Adriana è la tipica “grande parte” che porta con sé un buon numero di effetti scontati, ma che nel caso della sorvegliata scrittura di Cilea, diventa occasione per un canto logico, spontaneo e naturale, dove il cantante può diventare personaggio, se conosce il mestiere. L’orizzonte sonoro qui risente di una particolare gentilezza d’animo del compositore, che trattiene e circoscrive la melodia là dove gli altri suoi colleghi contemporanei preferiscono abbandonarsi alla piena del sentimento, risultando alla lunga scontato e un poco ripetitivo.
Il fortunatissimo e iper psichedelico allestimento de La Calisto di Francesco Cavalli, pensato da David Alden per la Bayerische Staastoper di Monaco di Baviera nel 2005, approda sulle tavole del Teatro Real di Madrid per la bellezza di 9 rappresentazioni che si prevedono già tutte esaurite.
Rappresentare oggi uno spettacolo come La Calisto, è indubbiamente una sfida avvincente per il teatro che la propone, non tanto per l'effetto riesumazione di uno lavoro macchinoso e lontanissimo dai gusti di un pubblico moderno, quanto per il saper cogliere le avvincenti peculiarità della nascita del melodramma che segnò una autentica rivoluzione nel costume dello spettacolo e della vita sociale dell'epoca.
Degno continuatore dell'opera monteverdiana, Francesco Cavalli, non può essere ricordato a prescindere dall'ambiente in cui la sua produzione nacque e dal pubblico per cui venne composta. L'ambiente è una Venezia immersa nel clima folle del Carnevale, del divertimento teatrale in cui il “nuovo” pubblico, quello pagante e non più il “vecchio” chiuso negli angusti ambienti di corte, si immergeva riconoscendosi e ritrovando sul palcoscenico ( pur nei complicati intrighi dei libretti) l'illusione di una vita felice in cui finzione e realtà si concretizzavano incredibilmente ricreando un presente veneziano.
E poiché la psicologia dello spettatore che compra un biglietto è diversa da quella di chi ha pagato tutto quanto, recita e teatro, ecco che si vengono a creare desideri, si accendono passioni, si fomentano pretese, si creano fanatismi e rivalità.
E per questo pubblico nuovo, Cavalli diviene il compositore più ricercato , colui che dotato di una natura istintiva, realistica, ne sa interpretare perfettamente le aspirazioni e le esigenze, solleticandone la curiosità spettacolare con un teatro semplice e per molti aspetti, popolare, a ciò si aggiungano i marchingegni tecnici del palcoscenico, le stupefacenti magie delle macchine teatrali e si avrà subito un'idea di quel clima fantastico e meraviglioso. Anche “La Calisto” risponde a queste caratteristiche: fantasia e arguzia, classicità e malizia libertina sono gli ingredienti per un successo garantito.
Successo anche a Madrid dove quel genio incredibile di David Alden immerge la sua “Calisto” in un bordello\night club anni 70 con luci al neon, decorazioni colorate psichedeliche ( scene di Paul Steinberg) e costumi sgargianti (di Buki Shiff). Divinità e mortali sembrano tutti parte di uno spettacolino per clienti lascivi: ecco Giove scendere le scale in un elegante smoking con la sigaretta in mano, Calisto canta una delle sue arie su di un palco con il microfono a gelato, Endimione è un cliente un po' naif non molto desiderato all'interno del locale, Giunone la matrona rompiballe che viene a cercare il marito fedifrago, Mercurio il factotum sordido, Linfea la carampana vogliosa e volgarotta. Tutto insomma perfettamente in linea con l'idea di Cavalli e Faustini (il librettista) che ricercavano nei loro lavori quella genialità sostanzialmente estemporanea, di una generosa complicità di invenzione, di una predilezione per contrasti drammatici netti e sbalzati, piuttosto che l'attitudine all'analisi, alla riflessione, che erano stati propri del maestro di Cavalli, Monteverdi. David Alden fa sua l'idea della coppia Cavalli\Faustini pur rimodernandola ed attualizzandola senza però stravolgere quel senso di forte eroticità e lascivia insita in uno spettacolo stracarico di passioni amorose, erotico, ricco di situazioni equivoche, di doppi sensi, d'amori leciti ed illeciti.
A sostenere musicalmente tanta abbondanza di inventiva, troviamo un generosissimo Ivor Bolton che a capo della Orquesta Barroca de Sevilla e del Monteverdi Continuo Ensemble, lavora sulla “partitura” del maestro cremasco con mano sapiente, ricreando una continuità musicale sulle poche notazioni lasciate dal Cavalli. Dialoghi e monologhi cantati, recitativi, motivi ripetuti, variazioni e bassi ostinati in melodie e arie, brevi interludi orchestrali, decorazioni espressive ed ornamenti sonori, rigoroso contrappunto nelle scene più drammatiche, questi sono il risultato ottenuto da Bolton per rendere più efficace l'impianto drammatico appena accennato nella scrittura di Cavalli, riuscendo a rivestirlo di quell'aulicità festosa che tanto piaceva all'eterogeneo pubblico veneziano di allora e a quello europeo di oggi.
Nella parte di Calisto troviamo Louise Alder che se ha tutte le carte in regola per dare al personaggio della ninfa tonta e avvenente, voce e corpo, manca ahimè della necessaria e indispensabile qualità per una cantante in questo repertorio. La Alden, pur sforzandosi, canta in una lingua tutta sua che però non è l'italiano e in un lavoro dove il testo è già di per suo funzione musicale, questo è inaccettabile. Qualità che invece hanno sia Monica Bacelli (il Destino, Diana, Le Furie) che fa di ogni parola, frase, sussurro un capolavoro di espressione, sia Luca Tittoto (Giove) spavaldo sulla scena quanto nella capacità di conferire veridicità e completezza alla parola che sta cantando. Spassosissimi e perfettamente in linea con il gusto sopra le righe voluto da Cavalli, Dominique Visse (La Natura, Satirino, Le furie) e Guy de Mey (Linfea) due controtenori straordinari. Karina Gauvin è una Giunone nobilissima nel canto di donna tradita ma che sa trasformarsi in una spietata Erinni, con volate drammatiche negli accenti nei momenti evocanti la vendetta. Il Mercurio di Nikolay Borchev tradisce anch'egli difficoltà nella perfetta pronuncia del testo nonostante una ottima prova canora.
Strordinario pure Tim Mead (Endimione) agile e chiaro nelle fioriture come nella aderenza al testo cantato, dotato di una messa di voce che rende con naturalezza la sconfinata realtà delle emozioni del giovane pastore. Ed Lyon riesce a conferire al personaggio di Pan la giusta dose di eroismo e spavalderia ma difettando anch'egli purtroppo di quella perfezione nella pronuncia della parola qui assolutamente indispensabile. Andrea Mastroni è stato un ottimo Silvano per profondità di voce e squillo non indifferente. Giunone era Karina Gauvin
Un plauso speciale ai numerosi attori che hanno fatto da contorno alla scena nelle vesti di ninfe, animali e ai due pavoni reali che accompagnano la presenza di Giunone sulla scena, coordinati nelle movenze sceniche da Magdalena Padrosa (da un'idea originaria di Beate Vollak).
Al termine del lungo spettacolo (circa 3 ore) applausi convinti per tutti da parte di un pubblico entusiasta e partecipe.
Pierluigi Guadagni
LA PRODUZIONE
Direttore: Ivor Bolton
regia: David Alden
scene: Paul Steinberg
Costumi: Buki Shiff
Lighting designer: Pat Collins
coreografie: Beate Vollack
GLI INTERPRETI
La Natura / Satirino / Le furie: Dominique Visse
L’Eternità / Giunone: Karina Gauvin
Il Destino / Diana / Le furie: Monica Bacelli
Giove: Luca Tittoto
Mercurio: Nikolay Borchev
Calisto: Louise Alder
Endimione: Tim Mead
Linfea: Guy de Mey
Pane: Ed Lyon
Silvano: Andrea Mastroni
Orquesta Barroca de Sevilla
Monteverdi Continuo Ensemble
PH. BY JAVIER DEL REAL
Revocato fortunatamente lo sciopero per la Prima ritorna al Teatro la Fenice l’intimistica produzione dell’ Otello verdiano targata Francesco Micheli, il cui punto di forza è l’analisi psicologica dei personaggi ed ovviamente del rapporto tra il bene ed il male rappresentati da Otello ed il suo antagonista. Ciò che circonda le loro subdole azioni è un velo di ipocrisia generale laddove chi accusa è colpevole a sua volta o lo diventa inevitabilmente. L’invidia, la mera cattiveria o la sete di potere sono colpe universali e tristemente attuali che spesso spingono l’uomo al successo molto più che la forza di volontà, l’onestà e la fedeltà, e se Jago ed Otello restano comunque scottati dalle loro azioni, nel mondo reale tanto spesso la si fa franca senza ritegno. Allora Micheli costringe l’azione principale in un claustrofobico cubo, una gabbia dorata in cui si consuma l’amore ma anche il delitto, intorno a cui Jago dal suo letto riflette, studia, cospira.. Le magnifiche proiezioni celesti incorniciano un 'castello' di sogni troppo brevemente cullati, e lo stesso palcoscenico da magico diventa sanguinolento, dai toni cupi, senza bagliori di speranza. Edoardo Sanchi è artefice della cornice scenica ed i costumi sono di Silvia Aymonino.
Se Otello è un uomo vigoroso, ma che si scioglie di miele fuso al fuoco lento dell’amore, non così è parso il suo interprete Marco Berti. Il timbro è quello di sempre ed il volume riflette certo la forza del Moro veneziano letteralmente ‘pettinando’ chi si trova nelle prime file. Ma il personaggio manca di sfumature, il canto sembra faticoso in diversi passaggi mettendo a rischio l’intonazione. Forza e carattere non sono completati dal lato gentile da cui Desdemona fu rapita.
Ed è Carmela Remigio la dolce consorte dell’impavido condottiero dell’Armata Veneta. Il soprano è corretto nel ruolo di donna sensibile ed innocente, dimessa alla mercé del destino ormai siglato da altri; la sua preghiera è summa di una interpretazione diremmo ‘raccolta’, tanto vocalmente che scenicamente. Molto personale e disinvolto lo Jago di Dalibor Jenis. Sfrutta le caratteristiche della voce con accenti ed inflessioni che danno veridicità al personaggio dai toni foschi ed al contempo melliflui nell’ottenere il favore del suo generale. Un ruolo centrato che domina la scena anche sugli altri. Matteo Mezzaro è un più che corretto Cassio, marionetta in balia degli intrighi suo malgrado; ben si disimpegnano i comprimari Antonello Ceron nel ruolo di Roderigo, Mattia Denti come Lodovico, Matteo Ferrara, alias Montano, ed Elisabetta Martorana come Emilia.
Myung-Whun Chung è artefice della cornice musicale che avvolge gli interpreti in questa produzione che vede forse nell’orchestra il suo elemento migliore. Se i protagonisti non sembrano generalmente brillare per ‘spessore’ interpretativo, diverso è il discorso per l’orchestra, che sotto la guida del direttore suona vigorosa e palpitante, che non significa fragorosa o ingombrante. Sembra quasi arricchire quanto forse manca sul palco nei diversi momenti scenici, costruendo sempre un ponte sicuro tra i passaggi di rilievo e i momenti apparentemente secondari, sì da ottenere un suono uniforme e ricco.
Il piccolo coro d voci bianche di Diana D’Alessio è corretto, oltre che adorabile, come preciso nell’insieme il collaudato coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Tutti gli artefici dello spettacolo sono stati applauditissimi al termine dello spettacolo.
Maria Teresa Giovagnoli.
LA PRODUZIONE
Direttore Myung-Whun Chung
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Silvia Aymonino
GLI INTERPRETI
Otello Marco Berti
Desdemona Carmela Remigio
Jago Dalibor Jenis
Cassio Matteo Mezzaro
Roderigo Antonello Ceron
Lodovico Mattia Denti
Montano Matteo Ferrara
Emilia Elisabetta Martorana
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Piccoli Cantori Veneziani
Maestro del Coro Diana D’Alessio
FOTO MICHELE CROSERA
Nell'ambito della Regione Veneto, l'Orchestra di Padova e del Veneto risulta l'unica Istituzione Concertistico-Orchestrale in attività. Fondata nel 1966, ha avuto tra i suoi direttori ospiti nomi del calibro di N. Marinner, P. Herreweghe, S. Accardo, R. Chailly solo per citarne alcuni e collaborazioni con i più importanti concertisti e compositori del mondo.
Per il suo concerto n.6751, ha invitato Orazio Sciortino che in veste sia di direttore che di pianista, ha pensato ad un programma decisamente invitante, se non altro per l'esecuzione di due tra i più interessanti concerti per pianoforte ed orchestra di Carl Philipp Emanuel Bach, di rarissima esecuzione perlomeno in Italia.
Il concerto si è aperto con una esecuzione felicissima dell'Overture in fa minore op.64 Egmont di L.V. Beethoven.
E' di scena alla Fenice di Venezia L'Italiana in Algeri di Rossini con il movimentato allestimento che l'evergreen Bepi Morassi ha ideato per questo periodo carnevalesco e quindi di grande affluenza nella città lagunare. Spiace per le agitazioni sindacali occorse in questi giorni per cui la prima del 24 febbraio è saltata (si prevedono altre cancellazioni nel mese in corso). Ciò ha di certo comportato un minor rodaggio dello spettacolo ed una conseguente intesa non sempre perfetta tra buca e palco avvertita in qualche passaggio. Questo anche perché con una incredibile dinamicità e successione di siparietti i protagonisti si muovono continuamente e non è facile star loro dietro mentre corrono, saltano, salgono e scendono scale, fanno in definitiva ginnastica. Una specie di simpatico circo ambulante che viaggia sulla nave di Mustafà arredata dalle simpatiche e colorate scene di Massimo Checchetto. La suddetta nave è ricca in ogni sua parte e perfino gli angolini o i corridoi nascondono dettagli utili all'azione scenica. Si disloca in più piani che però possono essere apprezzati esclusivamente per chi è posto di fronte. I dettagli volgono chiaramente al mondo arabo, mentre l'epoca a cui guarda il regista è la prima metà del secolo scorso, con qualche ispirazione cinematografica al primo Fellini. Un po' forzata forse l'idea di Isabella diva dello spettacolo, che una volta in salvo sulla nave viene costantemente paparazzata per uno scoop di fresca mano. Onestamente non sembra pregnante allo spettacolo né alla storia, ma è una aggiunta che comunque diverte il pubblico. Tra questo andirivieni in cui vi sono diversi cambi di costume, spiccano infatti gli abiti di Carlos Tieppo che si inseriscono pienamente nel brio generale.
Riprendere produzioni fortunate è certamente una mossa azzeccata in periodi turbolenti e di agitazioni sindacali, come quello che stanno attraversando in Italia diverse fondazioni liriche come l’Arena di Verona; il pubblico apprezza e riempie il teatro, l’atmosfera si fa più leggera ed in questo caso piena di brio.
Il Don Pasquale formato Antonio Albanese del 2013 riporta la scena nella provincia veronese e nei suoi vigneti. Roberto Maria Pizzuto ne riprende le fila riportandoci tra le pareti della fabbrica di vino ed i suoi schieramenti di bottiglie, opera di Leila Fteita, che prevedeva anche file di rigogliose viti ad addobbare il palco in profondità. Gli attempati domestici vagano ubriachi per la casa del vecchio tirchione e una anziana governante si rivela forse l’unica veramente affezionata al burbero padrone di casa. Il resto è storia nota: simpatici siparietti tra gli interpreti, giochi di mossette e sguardi furtivi e tanto spago alla spigliatezza o meno degli interpreti coinvolti. Leggeri e contestualizzati sono i costumi di Elisabetta Gabbioneta.
Su tutta la compagnia di canto spicca la Norina di Ruth Iniesta. Non solo sembra che il personaggio le sia stato cucito addosso, ma è incredibilmente sciolta vocalmente, la linea di canto uniforme ed è in grado di giocare quanto vuole sì da ottenere di volta in volta un connubio perfetto tra azione ed effetto sonoro. Meno spigliato ma in crescendo l’Ernesto di Marco Ciaponi. Parte un po’ trattenuto ma si lancia col procedere dello spettacolo, regalando anche momenti interessanti (ci riferiamo chiaramente a ‘com’ è gentil’) e partecipando convinto all’allegria della truppa, forte anche di una voce per l’appunto ‘gentil’. Il protagonista è un Carlo Lepore molto attoriale: sicuramente non gli manca la presenza scenica, la verve del mattatore e la capacità di tenere unito il gruppo in scena. Altresì Federico Longhi è un Malatesta gagliardo, spigliato e fieramente guascone anche vocalmente. Il Notaro col ciuffo svolazzante è il simpatico Alessandro Busi.
Alvise Casellati alla testa di una Orchestra corretta tende ad uniformare tanto i volumi quanto i colori dei suoni. Il coro preparato da Vito Lombardi è partecipe come sempre e lo ritroviamo come in precedenza anche tra il pubblico; forse però l’interazione con gli astanti distrae un pochino dall’attenzione ai tempi.
Pubblico contentissimo e plaudente per tutti: interpreti, ripresa della regia e direttore, con ovazioni per la Iniesta.
Maria Teresa Giovagnoli
LA PRODUZIONE
Direttore d'orchestra Alvise Casellati
Regia Antonio Albanese
Regia ripresa da Roberto Maria Pizzuto
Scene Leila Fteita
Costumi Elisabetta Gabbioneta
Lighting design Paolo Mazzon
Maestro del Coro Vito Lombardi
Direttore Allestimenti scenici Michele Olcese
GLI INTERPRETI
Don Pasquale Carlo Lepore
Dottor Malatesta Federico Longhi
Ernesto Marco Ciaponi
Norina Ruth Iniesta
Un Notaro Alessandro Busi
ORCHESTRA, CORO E TECNICI DELL’ARENA DI VERONA
Allestimento della Fondazione Arena di Verona
FOTO ENNEVI
Dopo nove anni torna al Comunale di Bologna la Salome intimista del regista Gabriele Lavia ideata in collaborazione con il Teatro Verdi di Trieste, qui ripresa da Gianni Marras. Una Salome in cui è protagonista il contrasto tra il bene ed il male, tra gli opposti che inevitabilmente si attraggono, anche se unilateralmente in questo caso. Giovanni è il bene che in opposizione a ciò che dovrebbe essere si trova nel profondo abisso imprigionato sotto terra. Salome e la sua corte sono in superficie invece, ma la voce della saggezza e della purezza li opprime costantemente da dove si trova. E la principessa ne è attratta inverosimilmente, vuole vedere l’oggetto di tanto mistero che lo zio/ patrigno ha fatto rinchiudere, vuole possedere le sue labbra come per estirpare o far suo quel verbo tanto pesante nei confronti suoi e della sua stirpe. Il palco come lo aveva pensato Alessandro Camera è un enorme squarcio intorno al quale la protagonista si muove sinuosamente, respinge ma attrae il marito di sua madre, che a sua volta la ammira ma ne è allo stesso tempo invidiosa. Una storia biblica cui si ispirò lo scandaloso (per i suoi tempi) Oscar Wilde i cui libri sono sintesi di edonismo ed ammirazione per la bellezza come bene assoluto. Salome è bellissima mentre Giovanni è ridotto ad uno straccio e prigioniero, ma a suoi occhi è una apparizione meravigliosa, finché non ne è respinta con le conseguenze che sappiamo.
Mettere in scena il mastodontico Andrea Chénier di Giordano non è impresa facile, innanzitutto nel pensare ad una regia credibile che non sappia di muffa, ma soprattutto, fatto di grande importanza, trovare interpreti che non facciano rimpiangere ciò che molti hanno ancora nelle orecchie dai fasti dei decenni passati. Lo sforzo produttivo dei teatri dell’ Emilia Romagna in coproduzione con Opéra de Toulon è certo notevole e deve averci pensato anche il regista Nicola Berloffa quando si è trovato a dover affrontare un capolavoro del genere. Come fare sognare il pubblico senza farlo annoiare? Come portare su palcoscenici non chilometrici il dramma della Rivoluzione francese e muovere masse artistiche in modo sensato evitando l’effetto claustrofobia? Il regista ha cercato di rispondere a queste esigenze con un insieme di idee che volgono verso la tradizione ma riuscendoci solo in parte. Riprendendo lo schema geometrico molto in voga attualmente la struttura di Justin Arienti ove si svolge l’azione è angolare e si trasforma cambiando colori o svelando particolari di volta in volta. Il castello di Coigny vede troneggiare nella sala principale un arazzo che riprende il celebre dipinto di Maria Antonietta e prole di Élisabeth Vigée Le Brun posto alla Reggia di Versailles, una onnipresente ghigliottina simboleggia il dramma storico in atto con un ovvio sbandieramento di tricolori francesi da parte del popolo in rivolta; inoltre impalcature, dipinti rivoluzionari e una serie di elementi ‘arricchiscono’ di volta in volta le scene. Questa serie di proposte forniscono la cornice ad una regia abbastanza statica, che ruota principalmente intorno alla ghigliottina e dove la folla di comparse e mimi non ha sempre una collocazione agevole, proprio per mancanza di spazio che forse poteva essere studiato diversamente. In stile i costumi di Edoardo Russo.